lunedì 27 novembre 2023

NESSUNO ESCLUSO. 

"Che io lo voglia o non lo voglia, il semplice fatto di essere un maschio mi permette di fare a piedi anche tutta la circonvallazione, di notte, senza sentirmi preda. Se fossi femmina, non potrei farlo con la stessa libertà. I maschi non hanno paura fisica delle femmine. Le femmine hanno paura fisica dei maschi.

Per questo si dice: è un problema di genere. Vuol dire che riguarda tutti, che nessuno può sentirsi esentato dal ragionarci sopra".

Michele Serra.

Ecco. Iniziamo a ragionare.
Ho scelto di condividere queste parole perché è sempre quello che non ho mai sopportato nella società da quando ero una ragazzina. Perché non potevo avere le stesse libertà di cui godeva un mio coetaneo maschio? Perché non potevo essere libera di camminare per strada senza essere circondata da fischi, clacson, occhiate, battute e complimenti non richiesti? Perché dovevo temere i passi di qualcuno che mi stava alle spalle in un luogo buio e isolato? 
Finora, si è preferito incolpare la donna che in qualche modo "se l'è cercata", piuttosto che educare una società e i maschi alla non-violenza.
Ma voglio sperare che qualcosa stia cambiando.
Esistono fin troppe disparità che non possono più essere ignorate. Ed è un bene che se ne parli.



domenica 7 giugno 2020

Il mio amore per la lingua italiana



Durante questi mesi di clausura forzata, ho vissuto in simbiosi con tutti i dispositivi dotati di display che avessero accesso a internet, perché era l’unico modo per rimanere ancorata alla realtà. Nonostante viva all’estero da anni, il mio interesse per le vicende italiane non è affatto diminuito, anzi durante la pandemia ha assunto dimensioni gigantesche. 
La fame di informazioni non è mai stata così alta, le conferenze stampa e i comunicati dei vari personaggi che hanno contato, sono stati il mio pane quotidiano, i social network la mia seconda casa.
Oltre a un senso di appartenenza viscerale al popolo italiano, che è lo stesso che mi ha fatto mantenere la cittadinanza nonostante le varie tentazioni, ho riscoperto una grande passione per la lingua italiana.
È stata una sorpresa e una novità per me. Io, che ho dedicato una vita intera allo studio ossessivo delle lingue straniere, sottovalutavo l’importanza di sapere un buon italiano. Mi sono resa conto che, mentre imparavo le altre lingue, studiavo, però, le altre materie in italiano, esercitavo la lettura e la scrittura e ampliavo il mio lessico. Solo grazie a tutto questo, posso accedere oggi alle informazioni in maniera facilitata, perché ne comprendo il significato.
Durante le mie numerose navigazioni in Internet, sono entrata in contatto con una realtà nuova. Sono numerosi i commenti di utenti che mi sono saltati all’occhio, perché scritti in un pessimo italiano. 
Per carità! Una svista ci può sempre stare, ma quando si scrive mettendo le acca un po’ a casaccio od omettendole del tutto, ponendo l’accento dove non dovrebbe andarci, modificando le parole in maiuscolo quando si vuole sottolineare un concetto (roba che il mio professore di italiano avrebbe contrassegnato con un bel 3!), allora viene naturale porsi qualche dubbio sul grado di informazione della popolazione.
La domanda che mi ponevo è la seguente: una persona che scrive in questo modo, come può comprendere appieno quello che dice e scrive uno scienziato, un virologo, un dottore, un avvocato, un giornalista, un politico, e chi più ne ha più ne metta? 
La mia risposta è che semplicemente non lo fa, perché non è capace. Gli mancano gli strumenti adeguati. Questa stessa persona probabilmente si fermerà alla lettura dei titoloni delle notizie, invece di approfondirle, preferirà le parole di gente che parla alla pancia o che racconta sempre quello che vuole sentirsi dire e finirà per giudicare il prossimo per la simpatia che trasmette e non per le sue idee.
Chiunque sa che la cultura non ha niente a che fare con l’intelligenza. Una persona intelligente dovrebbe essere sempre pronta a migliorarsi con la consapevolezza che non è da deboli commettere errori, se da essi si è in grado di trarne una lezione.
Secondo la mia modesta opinione, tutto parte da un buon italiano. 
Non è vero che imparare una lingua è come imparare ad andare in bicicletta, che una volta acquisite le capacità, è difficile dimenticarle. Una lingua va continuamente esercitata, deve essere in continuo movimento se si vuole mantenere un certo livello.
Allora cosa possiamo fare? Alcuni elementi sono fondamentali.
La lettura
Leggere il più possibile, sottolineare, cercare il significato di parole sconosciute, commentare ciò che si legge e costruirsi una propria opinione.
La scrittura
Quando si scrive, bisogna a tutti i costi cercare di non essere noiosi e ripetitivi, sia nel contenuto che nella forma. Per questo, è fondamentale ricorrere ai sinonimi, ai modi di dire, ai neologismi, ai giochi di parole e a tutto ciò che rende la lingua dinamica incollando l’attenzione. Inevitabilmente, anche con l’esercizio della scrittura si riesce ad ampliare il proprio lessico, che dalla carta passerà alla nostra bocca apportando un gran beneficio.
Il dizionario
È senza dubbio un evergreen. Serve sempre e in qualsiasi sua forma. Se avete dei bambini, vi consiglio di abituarli sin da subito a usare un dizionario e a ricercare autonomamente le informazioni nel posto giusto quando non si ha una risposta. Farete loro un grosso regalo per il futuro.
La ricerca di aiuto
Se da soli non ce la facciamo, possiamo sempre chiedere. Al giorno d’oggi, è possibile colmare le proprie lacune (sempre che lo si voglia!) nei più svariati modi e a qualsiasi prezzo. 
Coloro che, nel limite delle proprie possibilità, non vogliono spendere un euro per acquisire conoscenza, fanno un grosso errore.
Accrescere il proprio sapere è come inserire le monete in un salvadanaio. Non puoi vedere quante ce ne sono; te ne renderai solo conto quando per necessità lo dovrai rompere: tutte le monete saranno ancora là intatte.

venerdì 13 dicembre 2019

E-book o cartaceo?






Prima di lasciarvi alle vostre abbuffate natalizie, vorrei parlarvi di un dilemma che riguarda il campo dell’editoria e che tende a dividere le opinioni. 
Meglio l’e-book o il cartaceo?
Innanzitutto, in Italia, al contrario di quello che si potrebbe pensare, il cartaceo vince sul digitale e non di poco. Ma perché?
La prima cosa che mi viene in mente è che gli italiani leggono poco. Se hanno voglia di farlo, preferiscono comprare una copia cartacea ogni tanto, mentre i rari casi di lettori seriali e patologici affrontano prima o poi la necessità di affacciarsi al mondo digitale. 
Vi spiego quali sono per sommi capi i vantaggi dell’uno e dell’altro e poi sarete voi a giudicare.

I PRO DEL CARTACEO

I cinque sensi

Chi legge un cartaceo, vuole vivere un’esperienza totalizzante in cui i propri sensi devono essere messi in gioco. Si sente il bisogno di afferrare il libro, di sentirne il peso e la consistenza, di sfiorare la copertina e di sfogliare ogni singola pagina con le proprie mani (passare un dito sul tablet per girare pagina non è sufficiente!). Si vuole assolutamente sentire l’odore della carta e dell’inchiostro fresco di stampa (niente in confronto alla scia lasciata dallo Chanel n° 5, ma anche questo può avere il suo fascino!). Bisogna ascoltare il rumore della carta mentre leggiamo o il tonfo che il libro produrrebbe se malauguratamente dovesse cadere a terra. Si vuole far lavorare gli occhi sfruttando la luce del giorno o di una lampada e non quella di un tablet che regoliamo un po’ a casaccio, senza sapere se faccia bene alla nostra vista. 
All’appello mancherebbe il senso del gusto, più complicato da realizzare anche se è in tutte le intenzioni di chi afferma di aver divorato un libro. Esistono, però, pazzesche torte a forma di libro che si lasciano gustare che è una meraviglia. Direi, quindi, che quest’esempio lo possiamo prendere per buono.

Come diavolo si fa a regalare un e-book?
Un libro cartaceo è un’ottima idea regalo, a volte non sempre azzeccata, ma comunque ricevere una storia da leggere è sempre qualcosa che fa bene al cuore e alla mente. Se volessi regalarlo in formato digitale, dovrei cambiare purtroppo la presentazione. Il massimo della carineria sarebbe un pacchettino che conterrebbe al suo interno un foglietto con scritto: “Va’ un po’ a guardare tra le tue email, perché lì troverai il tuo regalo!”. 
Davvero poco romantico!

Salviamo le librerie!
L’avvento dell’era digitale e degli acquisti online accompagnato a uno scarso amore per la lettura ha contribuito alla chiusura di molte librerie, soprattutto di quelle più piccole. Queste non riescono a fronteggiare l’enorme offerta di titoli, che aumenta ogni anno di più, mentre le grandi librerie hanno tutti i mezzi a disposizione per andare incontro al lettore, offrendo non solo libri, ma anche articoli di cartoleria, giochi da tavolo, giocattoli, CD, DVD, articoli da regalo e gadget di ogni tipo. Una volta, mi è capitato di trovare in una grande libreria tedesca dei saponi solidi profumati made in Italy. Ho trovato che c’entrasse poco con la lettura, a parte che per il fatto che prima di toccare un libro è sempre meglio lavarsi le mani. 
È naturale che di fronte a questi colossi, le piccole librerie devono subire la dura legge del pesce grosso che si mangia quello più piccolo.
A due passi da casa mia, c’è una libreria, il cui interno è più piccolo del mio salotto (e il mio appartamento è davvero un buco) e che da quando mi sono trasferita qui ormai quattro anni fa è rimasta ancora aperta. Certo, non credo che la proprietaria si ammazzi di lavoro, considerando tutte le volte che l’ho beccata a fumarsi la sigaretta fuori dal locale poco affollato, ma un motivo per restare ancora aperta ci sarà. 
Non bisogna ancora perdere le speranze.

La bellezza di uno scaffale pieno di libri
Chi legge tanti libri cartacei, alla fine finirà per collezionarli in meravigliose librerie personali di cui tutto il mondo sarà invidioso. Queste diventano un prezioso pezzo di arredamento, un’attrazione alla quale qualsiasi ospite non potrà resistere. 
Una domanda, però, mi sorge spontanea: come si pulisce una libreria del genere? Per una persona allergica come me, che passa tutta l’estate a starnutire, questa sarebbe deleteria. Un ammasso di libri è il nido ideale per polvere, muffe e polline. Dovrei starci dietro in continuazione con prodotti sofisticati che intrappolano lo sporco, ma come si dice “il tempo è denaro” e a me servono entrambi!


I PRO DELL’E-BOOK

Un modello di praticità
Gli e-book costano di meno. La differenza di prezzo è abissale. Rispetto al suo corrispettivo cartaceo, può arrivare a costare un terzo o un quarto. Chi ama leggere tanto e non ha la stessa fortuna di zio Paperone, deve a un certo punto convertirsi al digitale. La sua cultura crescerà insieme al suo portafoglio.
Gli e-book sono comodi. Li puoi trasportare ovunque, non hanno peso e non corrono il rischio di essere rubati o rovinati nel tempo. Rimangono sempre lì, racchiusi nel web, e li puoi accumulare a dismisura senza aver problemi di spazio.
Poiché ti basta anche solo uno smartphone per leggerlo, ogni momento è buono per dedicarti alla lettura. Anche di notte, quando non riesci a dormire, ma non puoi accedere la luce se non vuoi essere linciato.

Un prodotto ecologico
Per produrre un e-book non serve la carta (sappiamo tutti da dove questa derivi?), inoltre non c’è bisogno di stamparlo e di rilegarlo. Per riceverlo, è solo necessario avere internet e saperlo usare. Tutta l’energia che serve per la produzione e la distribuzione del cartaceo viene a mancare. È un risparmio da non sottovalutare. Se vogliamo ridurre le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera (abbiamo davvero capito che è necessario farlo o no?), dobbiamo gettare uno sguardo a tutti i settori e non solo a quello che ci piace.

Moderno e interattivo
Nonostante per alcuni la lettura di un e-book venga considerata un’impresa titanica e una sofferenza per gli occhi, per altri, invece, diventa un lusso a cui è difficile rinunciare. 
Quando apro un e-book appena comprato, controllo subito la grandezza del carattere e lo correggo in base alle mie esigenze. In teoria, si potrebbe ingrandirlo fino a trasformare il proprio tablet come uno di quei telefoni con i tasti giganteschi che si regalano alle persone anziane.
Subito dopo, faccio sparire la cornice esterna, lasciando come visuale solo le parole del libro. Evito di controllare a che pagina mi trovo per rendere la lettura più misteriosa e coinvolgente. Non tocco più lo schermo, se non per girare pagina (virtualmente) o per conoscere il significato di una parola cliccando su di essa.
Il bello dell’e-book è proprio questo: quando sento dire “Questo è un bel mattoncino da leggere!”, si crea un pregiudizio e una consapevolezza di dover leggere tutte quelle pagine che con l’e-book non si ha.
Non essendo un libro fisico, non si ha la percezione di quanto possa essere spesso o pesante e questo non influenzerà la lettura.


Considerando la mia sensibilità per il tema dell’ambiente e la mia personale avversione ad accumulare oggetti in casa, è chiaro che io preferisca l’e-book. 
Nel mio appartamento, a parte alcune copie del mio romanzo, non ci sono libri. Quelli vecchi, che ho comprato prima dell’avvento del Kobo, li ho sistemati in cantina (lo so, sono una sconsiderata!). E poiché, sono una lettrice compulsiva, la mia applicazione conta centinaia di titoli. 
Se non avessero inventato l’e-book, avrei avuto un serio problema.
Sarei diventata squattrinata oppure avrei letto molto di meno ed entrambe le prospettive non mi sembrano tanto carine.
Trovo l’e-book talmente comodo che non potrei ritornare al cartaceo, nemmeno se lo volessi. Come ho già accennato precedentemente, il mio appartamento non è molto grande (avete idea di quanto costi un affitto a Berlino?). Dovrei mettere da parte qualche giocattolo e la cucina di legno di mia figlia per far spazio a una libreria. So già che lei non me lo perdonerebbe.
Questa, però, è solo la mia opinione e come sempre nella vita, è una questione di gusto.
Credo che l’importante sia leggere, non importa in quale forma.

martedì 3 dicembre 2019

…E invece finisco in un call center!






Dopo tutti questi tirocini, avevo accumulato tanta esperienza ma pochissimi soldi. Era arrivato il momento di trovarmi un lavoro che avesse una durata superiore ai sei mesi e che mi permettesse di guadagnare di più. Questo, in realtà, non fui io a deciderlo, ma il mio portafoglio che da tempo si sentiva talmente inutile da voler tentare il suicidio. 
Trovare un lavoro in un call center fu facilissimo. Un’azienda berlinese specializzata nello shopping online stava invadendo il mercato italiano bombardandolo di pubblicità. Aveva, quindi, terribilmente bisogno di personale italiano che potesse affrontare il carico di telefonate previsto.
Mi ritrovai per la prima volta a lavorare con italiani e fu un vero cambiamento per me. Instaurai subito dei rapporti che superavano il lavoro. Finii per coltivare la loro amicizia anche al di fuori degli orari lavorativi, magari a cena gustando dell’ottimo cibo italiano.
Questo non era mai stato possibile con i colleghi tedeschi per vari motivi. 
Primo: loro non parlano molto. Ci mettono mesi per aprirsi. Ci sono alcuni che addirittura non lo fanno mai. Ho avuto una dirigente che, nonostante sedessi sempre a un metro di distanza da lei, preferiva mandarmi delle email per comunicarmi cosa fare, invece che dirmelo personalmente. 
Secondo: un rapporto di amicizia sul lavoro per loro è impensabile. Il lavoro è lavoro e tutto ciò che ne appartiene deve rimanere al di fuori della sfera privata. Inoltre, in ufficio è facile che si creino competizioni e invidie. Preferiscono, quindi, evitare di caricare la loro giornata lavorativa con l’elemento personale per rendere le cose più facili. 
Terzo: quando hai la fortuna di incontrare delle eccezioni (non tutte le ciambelle vengono col buco!), il passaggio successivo al semplice rapporto sul posto di lavoro avviene in tempi lunghissimi. Questo perché con loro hai sempre bisogno di un appuntamento. I tedeschi sono gli inventori degli appuntamenti. Loro amano compilare tabelle, schemi, grafici dove tutto è preciso e organizzato, senza lasciare spazio alle sviste.
L’appuntamento in questione, però, non è del tipo “Che hai da fare nei prossimi giorni?”, ma più della serie “Ho uno spazio libero in quel determinato giorno tra un paio di mesi!”, perché prima viene la famiglia, la macchina, il cane, il gatto, la vacanza, Netflix, la casa e poi tutto il resto.

Lavorare a quel progetto rispondendo a un volume impressionante di chiamate al giorno fu davvero stressante. Tutto era pessimo: il luogo e le condizioni di lavoro, la paga, le lamentele della gente al telefono. L’unica cosa che mi permetteva di sopportare le mie giornate erano i miei colleghi italiani. Il legame divenne sempre più forte anche perché avevamo in comune un’unica grande esperienza: l’espatrio. 
Ho sentito qualcuno definirci dei “vigliacchi”. Bè, per me i miei colleghi erano tutto tranne che dei vigliacchi. Erano brillanti, intelligenti, ognuno con un’ottima formazione alle spalle. Erano tristi perché seguendo un puro istinto di sopravvivenza erano stati costretti a lasciare un Paese dove splendeva quasi sempre il sole e si mangiava da Dio per andare a lavorare in un call center in un Paese di cui non conoscevano la lingua e dove l'assenza di vitamina D diventava cronica. A loro mancava terribilmente la parmigiana di melanzane della mamma, la mozzarella fresca della latteria e la brezza del mare. Allo stesso tempo, dovevano pensare al loro futuro e questo, purtroppo, non poteva essere in Italia.

Dopo un anno, ci mandarono tutti a casa. 
Voi penserete: caspita, che grande novità per te! 
Il volume delle chiamate cominciò a scendere fino a diventare nullo. Noi non servivamo più. Fui comunque contenta di lasciare quel posto. Non avrei più rivisto i miei colleghi, ma il mio corpo e la mia mente avevano un terribile bisogno di relax.
Mi presi una breve pausa e qualche spicciolo dalla disoccupazione. Recuperai, però, le energie in fretta e decisi di ritornare a lavorare in un altro call center.  
Qui la situazione non migliorò per niente.
Entrai a far parte di un progetto dove a ogni chiamata entrante in tedesco e in italiano dovevo cercare di vendere i loro prodotti. Il punto critico (che portò poi il progetto a fallire) fu che gran parte delle chiamate che ci arrivavano era destinata al reparto tecnico, che era incaricato di riparare e risolvere problemi. Chiamava, quindi, molta gente incazzata e già insoddisfatta dell’azienda che non avrebbe preso ancora un altro prodotto neanche se glielo avessimo regalato. 
Potete immaginare quanto fosse enorme la pressione alla vendita e quanto ogni giorno fosse frustrante giocare a fare la venditrice di un’azienda di cui non me ne importava un accidenti.
Anche questo progetto si rivelò una bolla di sapone, ma il call center non volle assolutamente rinunciare a me. Mi spostarono nel reparto tecnico per televisori di una marca molto famosa. L’ambiente tecnico è per antonomasia pieno di uomini e questo non fu da meno. Dovetti fronteggiare qualche sguardo di troppo, alcune email improbabili e aperte dichiarazioni di interesse. Giravo tutto il giorno con la mia mano sinistra alzata mettendo in bella mostra la mia fede nuziale e rischiando così di beccarmi l’artrosi.
Non trovai questa situazione spiacevole. Anzi, stranamente mi sentivo coccolata e protetta da tutti questi uomini. E soprattutto apprezzavano tanto il mio lavoro, dato che lo dovevo svolgere interamente in tedesco. Io, però, iniziai a cambiare. Diventai insofferente a quel genere di impiego. Mi ero stufata.
Quando, con un enorme sorriso stampato sulle loro facce, si presentarono con il mio contratto rinnovato per un altro anno (al quale, per legge, avrebbe dovuto seguire l’indeterminato), io non mostrai l’entusiasmo che loro si aspettavano. 
Lo rifiutai. 
Capii che non volevo passare il resto della mia vita a rispondere al telefono. In questo, non trovavo nessuna realizzazione personale. Decisi di dedicare il tempo della disoccupazione a me stessa. 
Fu allora che iniziai a scrivere. C’era una storia che ronzava nella mia testa da così tanto tempo che avrebbe rischiato di esplodere se non l’avessi messa per iscritto. Fu incredibile perché una volta che la misi nero su bianco, non ci pensai più. 
Con mia grande sorpresa, scoprii che amavo scrivere. Ciò mi restituiva tutta quella libertà che mi era stata tolta durante quegli anni di call center. Nessuno mi poteva dire quando andare al bagno e per quanto tempo. Nessuno poteva vietarmi di mangiare seduta alla mia scrivania. Nessuno mi istruiva a dire sempre le stesse cose e nello stesso maledetto modo. Se ero malata, non ero costretta ad andare subito dal medico, ritirare il certificato e mandarlo subito per posta altrimenti avrei rischiato qualche penalizzazione. Nessuno più controllava e correggeva quello che dicevo e quello che facevo.
Con la scrittura recuperai la mia dignità e il potere di agire in piena libertà. Potevo finalmente dare sfogo alla mia fantasia, che era stata per molti anni intrappolata nella mia testa. 
Da allora sono passati più di quattro anni. Il mio primo romanzo è da poco in vendita e io stento ancora a crederci.
Perché così tanto tempo?
Nel frattempo, sono diventata mamma. Mia figlia è stata talmente voluta e cercata (anche questo percorso non è stato per niente facile, ma questa è un’altra storia) che mi è venuto spontaneo dedicarle tutto il mio tempo a disposizione per accompagnarla nella crescita. Appena lei ha acquisito un’indipendenza tale da poter frequentare senza problemi un asilo, io sono riuscita a portare a termine il mio progetto di cui sono maledettamente fiera.
“Seguendo la mia stella” è il mio romanzo d’esordio e di rinascita.