martedì 19 novembre 2019

Volevo fare l’event manager…





Quando decisi che Berlino sarebbe diventata la mia fissa dimora, avevo una laurea in lingue straniere nella tasca, ma le mie esperienze lavorative erano pari a zero. Inoltre, il mio tedesco era buono, ma il livello da madrelingua era un lontano traguardo che potevo ammirare solo con un potente cannocchiale. Ciononostante, volevo assolutamente lavorare con i tedeschi, confondermi tra di loro e sentirmi parte integrante di un nucleo compatto e affiatato. E soprattutto, mi ero messa in testa che dovevo organizzare eventi. Mi sembrava una professione dinamica e piena di sfaccettature, anche se a volte stressante. Non so perché, ma all’epoca decisi che doveva essere quello il lavoro dei miei sogni.
Sognavo di entrare ogni giorno nel mio ufficio con il sorriso stampato sulla faccia, augurando il buongiorno a un team che organizzava fiere o conferenze in giro per il mondo. 
Purtroppo la realtà fu molto diversa. Dovetti accontentarmi di partire da un tirocinio, con la speranza di essere poi assunta in maniera definitiva. 
Questo, però, non accadde mai. 
Accumulai un tirocinio dietro l’altro fino a quando non conquistai la fascia di Miss Tirocinante Perfetta per diversi anni consecutivi. A quanto pare, ogni volta c’era un motivo valido alla mancata assunzione che non fosse da ricondurre alle mie scarse qualità. 
Io non credo di essere stata un’inetta. Sono convinta, invece, di non aver avuto soltanto Saturno contro, ma che anche a tutta la Via Lattea non debba essere stata un granché simpatica.
Ricordo ogni esperienza lavorativa come se fosse ieri. Ognuna mi ha lasciato qualcosa, positivo o negativo che sia.
Ecco a voi una carrellata. 
Poi sarete voi a dirmi se non ho ragione!

Il molestatore
Il mio primo colloquio di lavoro lo svolsi in un enorme ufficio dove lavoravano in tutto quattro persone, che si occupavano di organizzare fiere in giro per la Germania. A interrogarmi è il capo di questa minuscola azienda, un signore di mezz’età molto in sovrappeso e con la battuta pronta. 
Non stava cercando personale. Io avevo mandato il mio curriculum di mia iniziativa e lui lo aveva trovato talmente interessante, da chiamarmi per un colloquio. 
Aveva in mente di inserirmi nel mercato italiano, ma era disposto ad assumermi solo se io avessi superato un mese di prova (senza una benché minima retribuzione). Io, poiché ero molto desiderosa di iniziare a lavorare, accettai ingenuamente la sua proposta. Per una settimana fui impegnata a non fare altro che traduzioni. Traducevo il loro sito internet dal tedesco all’italiano, mentre nel frattempo lui mi spiegava in che cosa consisteva la loro attività.
Imparai subito a conoscerlo. Era arrogante, burbero, dominante e frustrato perché avrebbe voluto avere più successo nel suo campo. Le sue collaboratrici odiavano lavorare in quel posto e alla fine di quella settimana lavorativa, capii anche il perché. 
Era un gran porco.
Uno di quelli che non lo danno subito a vedere. Uno di quelli che sfruttano la propria posizione di predominanza per schiacciarti e trattarti come una bambolina con cui giocare a proprio piacimento. 
Iniziò a entrare sul personale. Gli interessava la mia vita privata e quello che io facevo con il mio fidanzato. Io cercavo di rispondere gentilmente senza dare troppe informazioni. Una domanda in particolare mi colpì a tal punto da far suonare nella mia testa un enorme campanello d’allarme. Mi chiese se io in genere viziavo il mio ragazzo. 
Che diavolo voleva intendere il suo cervello malato?
Decisi comunque che non lo volevo sapere.
Noi donne non abbiamo per niente la vita facile. Prima o poi, ci capiterà di incontrare un idiota del genere, che si arrogherà il diritto di superare il limite solo perché siamo dotate di un paio di tette. L’importante è, però, saper reagire nella maniera giusta.
Io capii subito che quello non era il modo corretto in cui un datore di lavoro si doveva rivolgere a una sua dipendente e che anche se avessi ottenuto il posto, avrei dovuto sopportare ogni giorno la sua prepotenza come facevano le altre.
Il lunedì successivo non mi presentai al lavoro.
Quell’episodio spiacevole era da buttare nel dimenticatoio. 
Tolsi la mia foto dal curriculum, perché quello era il vero motivo per cui mi aveva chiamata.

Il mediatore poco mediante
Poco dopo entrai a far parte di un istituto dove si potevano imparare tutte le tecniche per diventare un buon mediatore, ovvero una figura professionale incaricata di risolvere i conflitti tra le due parti, per evitare di finire davanti a un giudice. 
Io, sempre da tirocinante, mi occupavo di tutta la parte amministrativa, interessandomi poco alla materia in questione. Ma non fu solo questo il motivo per cui poi non venni assunta. Il mio capo, sebbene facesse di professione il rappacificatore, possedeva invece sul piano personale un carattere tutt’altro che pacifico. Mostrava delle evidenti preferenze tra i suoi collaboratori, tra le quali ovviamente io non ero compresa. In particolare, aveva preso di mira una sua dipendente, della quale non mancava mai di sottolineare le mancanze e gli errori. In tutta onestà, non riuscivo a capire tutto questo suo accanimento. Io vedevo solo una donna fragile che era costretta a corrergli dietro in continuazione come si fa con un bambino capriccioso. 
Quando io e lei affrontavamo l’argomento, lei ribadiva sempre il fatto che lui avesse un debole per le bionde e che noi due non lo eravamo.
All’epoca, come ora, dubitavo che si potesse essere così superficiali da determinare il proprio grado di simpatia in base al colore dei capelli. Iniziai, però, a chiedermi se questo suo atteggiamento valesse anche per le altre professioni.
Ad esempio: i pasticcieri, in realtà, odiano gli zuccheri? I commercialisti vengono o no sopraffatti dalla nausea quando pensano di doversi occupare della propria dichiarazione dei redditi? 
Avete presente il film Laws of Attraction, con Pierce Brosnan e Julianne Moore, una delle mie commedie romantiche preferite? Ebbene, lui è un avvocato divorzista di successo che, però, non crede nel divorzio, tanto da voler continuare il matrimonio con la protagonista, che invece non ne vuole proprio sapere. Per lui, infatti, si tratta solo di lavoro e non di una filosofia di vita. 
Credo che questo discorso valga per alcune professioni, ma non per tutte. Se voi avete qualche esempio da propormi, sono tutta orecchi!

Il cinema. Che dolore!
Poi fu la volta di un’azienda che affittava alle produzioni cinematografiche telecamere, stativi, luci e altri apparecchi necessari per poter girare un film. 
Io dovevo stare alla reception, rispondere al telefono e controllare la merce in entrata e in uscita. Controllare per me significava pesare le telecamere che erano contenute in enormi valigie. Ero, quindi, costretta a sorreggere svariati chili su una bilancia più volte al giorno. 
Ben presto, mi risvegliai nel cuore della notte con il corpo completamente paralizzato perché quest’attività aveva intaccato i nervi della mia schiena. 
Da allora, il mal di schiena è diventato il mio migliore amico, che sono riuscita a tenere a bada solo con lo yoga, la migliore invenzione importata dall’India, insieme a quella del Kamasutra.
Non fu questo il motivo per cui mi licenziai. Mi dissero che le persone che parlavano con me al telefono, non riuscivano a capire il mio tedesco. Io ero convinta, invece, che quelle persone non erano abituate a sentire al telefono una voce dall’accento marcato e che quindi non VOLEVANO capire. Notai subito che avevano iniziato i colloqui per sostituirmi senza dirmelo. Decisi, così, di togliere il disturbo.
Non resto di certo in un posto dove non sono ben voluta!

Della serie: mai una gioia!
Finalmente approdai in un bel team che lavorava a un progetto davvero interessante. In tre lavoravamo in un ufficio dell’università e organizzavamo un convegno per cineasti, produttori e registi che si teneva una volta l’anno. Mi occupai di diverse mansioni. Redassi da sola la brochure dell’evento e la presentazione in PowerPoint per i partecipanti. Mi sentivo soddisfatta e apprezzata per il mio lavoro. Purtroppo il progetto, che era interamente finanziato dall’Unione Europea, non si sarebbe più svolto l’anno successivo e quindi anche in quel caso, dovetti levare le tende.

Una soddisfazione prima del baratro
Il mio ultimo tirocinio (finalmente!) si svolse nell’azienda dei miei sogni. Lavorare per loro avrebbe fatto bene non solo al mio ego, ma anche al mondo intero. Quest’azienda, infatti, si occupava di energia solare, nella forma di un magazine, di svariate conferenze e consulenza ingegneristica. Io assistevo l’organizzatrice delle fiere a cui l’azienda partecipava. Svolgevo il lavoro che avevo sempre voluto fare. Ero davvero al settimo cielo.
Il settore dell’energia solare, però, non era molto stabile. Molto dipendeva dai finanziamenti governativi e sebbene la mia azienda fosse in attivo, doveva stare molto attenta con le finanze. Alla fine dei miei sei mesi, non ottenni un altro contratto. La mia responsabile mi disse che l’idea di assumermi lì non era stata sua e che lei non aveva bisogno di me.
Fu un vero peccato!

Bene! Se adesso state pensando che io abbia vissuto abbastanza disgrazie da meritarmi un bel viaggio a Lourdes, dovete capire, invece, che quanto raccontato finora è solo l’inizio.
Il peggio deve ancora arrivare!

mercoledì 6 novembre 2019

...e ancora matrimoni!




La cerimonia indiana

Era la prima volta che prendevo un volo intercontinentale. Stare tutte quelle ore senza toccare il suolo terrestre contribuì a caricare il mio corpo dell’adrenalina necessaria per affrontare tutto il viaggio. 
L’arrivo in India è stato travolgente come un uragano al massimo della sua potenza. Qui non c’era niente, ma proprio niente, che assomigliasse alla realtà che avevo conosciuto fino ad allora. Esaurita la sorpresa iniziale, ho dovuto tirar fuori un enorme spirito di adattamento e non è stato sempre facile, dato che per me il massimo dell’avventura era rappresentato dal mangiarmi uno yoghurt scaduto da un giorno. 
Ho dovuto imparare a lavarmi con un secchio e una brocca di plastica, a convivere con una perenne aria condizionata, a rispettare le etichette e gli impegni sociali, a dimenticarmi della privacy e della solitudine e a fare i conti con i tanto famosi problemi intestinali.
Il nostro matrimonio, sebbene celebrato in un solo giorno invece che tre e presenziato da un centinaio di persone invece che un migliaio, è scivolato via senza che io me ne rendessi conto. Ero come un burattino, che tutti decidevano come manovrare ed io, per amore, ho lasciato che fosse così. Ho messo in un angolo, per un momento, il mio cervello pensante e sono stata spettatrice come tutti gli altri delle mie stesse nozze.
Fu un’esperienza stancante, ma ne valse la pena. Alla fine, ero stata accettata da questa piccola comunità, i cui membri portavano quasi tutti lo stesso cognome e guardavano lo straniero sempre con un certo scetticismo. 
Da allora, anch’io potei chiamarmi Patel come loro e di questo ne vado particolarmente fiera.

Il matrimonio italiano

Se per quanto riguarda la cerimonia in chiesa avevo pensato di aver più voce in capitolo, mi sbagliavo di grosso. Anche in questo caso, bisognava mettere d’accordo un po’ tutti, attenersi al bugdet e incrociare le dita che andasse tutto secondo i piani. Gli ostacoli incontrati durante i preparativi non furono pochi, ma riuscimmo a cavarcela sempre in qualche modo. 
Ricordo come fu particolarmente difficile la ricerca del prete. Al nostro matrimonio, avrebbero partecipato i genitori di lui, che sarebbero venuti per la prima volta in Europa in occasione di questo evento, altri parenti dagli Stati Uniti e un paio di amici da Berlino. Capite come un prete che parlasse inglese fosse necessario come l’aria.
Venimmo a scoprire della presenza di un giovane prete indiano in una parrocchia dalle mie parti e per noi fu come vincere la lotteria. La nostra euforia fu, però, subito spenta appena facemmo la conoscenza di questo individuo. Quando gli chiedemmo di celebrare le nostre nozze, la sua faccia diventò così seria e dura che per un attimo pensai che avesse capito male e che credesse di dover celebrare un funerale.
Quando, poi, lo informammo della nostra necessità di un prete che parlasse in inglese, allora fu proprio un “no” definitivo. A quanto pare, non sapeva una parola di inglese e quindi, per noi era fuori discussione. 
Fu un vero peccato! Soprattutto, perché sapendo che lui proveniva dal sud dell’India, dove l’hindi non è incluso tra le lingue parlate, un po’ d’inglese avrebbe dovuto masticarlo. Ne avemmo, poi, la conferma quando scoprimmo che, in quel paesino pugliese, lui s’impegnava addirittura a insegnare l’inglese ai bambini.
Alla faccia del compatriottismo!
Non capimmo mai perché lui non volle avere nulla a che fare con noi, ma poi alla fine che importava? 
Riuscimmo a trovare un altro prete, questa volta italiano, il cui inglese non era per niente male. Durante la cerimonia, fu in grado di passare da una lingua all’altra come se fosse qualcosa che faceva tutti i giorni.
La cerimonia fu davvero particolare. Un coro che intonò l’Ave Maria come se si trovasse a La Scala e i voti pronunciati in italiano dallo sposo furono responsabili di qualche lacrima tra gli invitati.
I festeggiamenti furono una vera bomba. 
Facemmo il nostro ingresso nel locale direttamente dal mare, su una zattera bianca guidata da uno pseudo gondoliere con un sottofondo musicale a cura di un sassofonista.
Tra ogni tipo di pietanza a base di pesce, balli scatenati che facevano concorrenza ai migliori film di Bollywood e fiumi di whisky che riempivano i bicchieri al posto dell’acqua, la festa si trasformò in una unione allegra e armoniosa di diverse culture, che sembravano conoscersi da una vita.
Per anni sentii ancora parlare di quel giorno.