venerdì 13 dicembre 2019

E-book o cartaceo?






Prima di lasciarvi alle vostre abbuffate natalizie, vorrei parlarvi di un dilemma che riguarda il campo dell’editoria e che tende a dividere le opinioni. 
Meglio l’e-book o il cartaceo?
Innanzitutto, in Italia, al contrario di quello che si potrebbe pensare, il cartaceo vince sul digitale e non di poco. Ma perché?
La prima cosa che mi viene in mente è che gli italiani leggono poco. Se hanno voglia di farlo, preferiscono comprare una copia cartacea ogni tanto, mentre i rari casi di lettori seriali e patologici affrontano prima o poi la necessità di affacciarsi al mondo digitale. 
Vi spiego quali sono per sommi capi i vantaggi dell’uno e dell’altro e poi sarete voi a giudicare.

I PRO DEL CARTACEO

I cinque sensi

Chi legge un cartaceo, vuole vivere un’esperienza totalizzante in cui i propri sensi devono essere messi in gioco. Si sente il bisogno di afferrare il libro, di sentirne il peso e la consistenza, di sfiorare la copertina e di sfogliare ogni singola pagina con le proprie mani (passare un dito sul tablet per girare pagina non è sufficiente!). Si vuole assolutamente sentire l’odore della carta e dell’inchiostro fresco di stampa (niente in confronto alla scia lasciata dallo Chanel n° 5, ma anche questo può avere il suo fascino!). Bisogna ascoltare il rumore della carta mentre leggiamo o il tonfo che il libro produrrebbe se malauguratamente dovesse cadere a terra. Si vuole far lavorare gli occhi sfruttando la luce del giorno o di una lampada e non quella di un tablet che regoliamo un po’ a casaccio, senza sapere se faccia bene alla nostra vista. 
All’appello mancherebbe il senso del gusto, più complicato da realizzare anche se è in tutte le intenzioni di chi afferma di aver divorato un libro. Esistono, però, pazzesche torte a forma di libro che si lasciano gustare che è una meraviglia. Direi, quindi, che quest’esempio lo possiamo prendere per buono.

Come diavolo si fa a regalare un e-book?
Un libro cartaceo è un’ottima idea regalo, a volte non sempre azzeccata, ma comunque ricevere una storia da leggere è sempre qualcosa che fa bene al cuore e alla mente. Se volessi regalarlo in formato digitale, dovrei cambiare purtroppo la presentazione. Il massimo della carineria sarebbe un pacchettino che conterrebbe al suo interno un foglietto con scritto: “Va’ un po’ a guardare tra le tue email, perché lì troverai il tuo regalo!”. 
Davvero poco romantico!

Salviamo le librerie!
L’avvento dell’era digitale e degli acquisti online accompagnato a uno scarso amore per la lettura ha contribuito alla chiusura di molte librerie, soprattutto di quelle più piccole. Queste non riescono a fronteggiare l’enorme offerta di titoli, che aumenta ogni anno di più, mentre le grandi librerie hanno tutti i mezzi a disposizione per andare incontro al lettore, offrendo non solo libri, ma anche articoli di cartoleria, giochi da tavolo, giocattoli, CD, DVD, articoli da regalo e gadget di ogni tipo. Una volta, mi è capitato di trovare in una grande libreria tedesca dei saponi solidi profumati made in Italy. Ho trovato che c’entrasse poco con la lettura, a parte che per il fatto che prima di toccare un libro è sempre meglio lavarsi le mani. 
È naturale che di fronte a questi colossi, le piccole librerie devono subire la dura legge del pesce grosso che si mangia quello più piccolo.
A due passi da casa mia, c’è una libreria, il cui interno è più piccolo del mio salotto (e il mio appartamento è davvero un buco) e che da quando mi sono trasferita qui ormai quattro anni fa è rimasta ancora aperta. Certo, non credo che la proprietaria si ammazzi di lavoro, considerando tutte le volte che l’ho beccata a fumarsi la sigaretta fuori dal locale poco affollato, ma un motivo per restare ancora aperta ci sarà. 
Non bisogna ancora perdere le speranze.

La bellezza di uno scaffale pieno di libri
Chi legge tanti libri cartacei, alla fine finirà per collezionarli in meravigliose librerie personali di cui tutto il mondo sarà invidioso. Queste diventano un prezioso pezzo di arredamento, un’attrazione alla quale qualsiasi ospite non potrà resistere. 
Una domanda, però, mi sorge spontanea: come si pulisce una libreria del genere? Per una persona allergica come me, che passa tutta l’estate a starnutire, questa sarebbe deleteria. Un ammasso di libri è il nido ideale per polvere, muffe e polline. Dovrei starci dietro in continuazione con prodotti sofisticati che intrappolano lo sporco, ma come si dice “il tempo è denaro” e a me servono entrambi!


I PRO DELL’E-BOOK

Un modello di praticità
Gli e-book costano di meno. La differenza di prezzo è abissale. Rispetto al suo corrispettivo cartaceo, può arrivare a costare un terzo o un quarto. Chi ama leggere tanto e non ha la stessa fortuna di zio Paperone, deve a un certo punto convertirsi al digitale. La sua cultura crescerà insieme al suo portafoglio.
Gli e-book sono comodi. Li puoi trasportare ovunque, non hanno peso e non corrono il rischio di essere rubati o rovinati nel tempo. Rimangono sempre lì, racchiusi nel web, e li puoi accumulare a dismisura senza aver problemi di spazio.
Poiché ti basta anche solo uno smartphone per leggerlo, ogni momento è buono per dedicarti alla lettura. Anche di notte, quando non riesci a dormire, ma non puoi accedere la luce se non vuoi essere linciato.

Un prodotto ecologico
Per produrre un e-book non serve la carta (sappiamo tutti da dove questa derivi?), inoltre non c’è bisogno di stamparlo e di rilegarlo. Per riceverlo, è solo necessario avere internet e saperlo usare. Tutta l’energia che serve per la produzione e la distribuzione del cartaceo viene a mancare. È un risparmio da non sottovalutare. Se vogliamo ridurre le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera (abbiamo davvero capito che è necessario farlo o no?), dobbiamo gettare uno sguardo a tutti i settori e non solo a quello che ci piace.

Moderno e interattivo
Nonostante per alcuni la lettura di un e-book venga considerata un’impresa titanica e una sofferenza per gli occhi, per altri, invece, diventa un lusso a cui è difficile rinunciare. 
Quando apro un e-book appena comprato, controllo subito la grandezza del carattere e lo correggo in base alle mie esigenze. In teoria, si potrebbe ingrandirlo fino a trasformare il proprio tablet come uno di quei telefoni con i tasti giganteschi che si regalano alle persone anziane.
Subito dopo, faccio sparire la cornice esterna, lasciando come visuale solo le parole del libro. Evito di controllare a che pagina mi trovo per rendere la lettura più misteriosa e coinvolgente. Non tocco più lo schermo, se non per girare pagina (virtualmente) o per conoscere il significato di una parola cliccando su di essa.
Il bello dell’e-book è proprio questo: quando sento dire “Questo è un bel mattoncino da leggere!”, si crea un pregiudizio e una consapevolezza di dover leggere tutte quelle pagine che con l’e-book non si ha.
Non essendo un libro fisico, non si ha la percezione di quanto possa essere spesso o pesante e questo non influenzerà la lettura.


Considerando la mia sensibilità per il tema dell’ambiente e la mia personale avversione ad accumulare oggetti in casa, è chiaro che io preferisca l’e-book. 
Nel mio appartamento, a parte alcune copie del mio romanzo, non ci sono libri. Quelli vecchi, che ho comprato prima dell’avvento del Kobo, li ho sistemati in cantina (lo so, sono una sconsiderata!). E poiché, sono una lettrice compulsiva, la mia applicazione conta centinaia di titoli. 
Se non avessero inventato l’e-book, avrei avuto un serio problema.
Sarei diventata squattrinata oppure avrei letto molto di meno ed entrambe le prospettive non mi sembrano tanto carine.
Trovo l’e-book talmente comodo che non potrei ritornare al cartaceo, nemmeno se lo volessi. Come ho già accennato precedentemente, il mio appartamento non è molto grande (avete idea di quanto costi un affitto a Berlino?). Dovrei mettere da parte qualche giocattolo e la cucina di legno di mia figlia per far spazio a una libreria. So già che lei non me lo perdonerebbe.
Questa, però, è solo la mia opinione e come sempre nella vita, è una questione di gusto.
Credo che l’importante sia leggere, non importa in quale forma.

martedì 3 dicembre 2019

…E invece finisco in un call center!






Dopo tutti questi tirocini, avevo accumulato tanta esperienza ma pochissimi soldi. Era arrivato il momento di trovarmi un lavoro che avesse una durata superiore ai sei mesi e che mi permettesse di guadagnare di più. Questo, in realtà, non fui io a deciderlo, ma il mio portafoglio che da tempo si sentiva talmente inutile da voler tentare il suicidio. 
Trovare un lavoro in un call center fu facilissimo. Un’azienda berlinese specializzata nello shopping online stava invadendo il mercato italiano bombardandolo di pubblicità. Aveva, quindi, terribilmente bisogno di personale italiano che potesse affrontare il carico di telefonate previsto.
Mi ritrovai per la prima volta a lavorare con italiani e fu un vero cambiamento per me. Instaurai subito dei rapporti che superavano il lavoro. Finii per coltivare la loro amicizia anche al di fuori degli orari lavorativi, magari a cena gustando dell’ottimo cibo italiano.
Questo non era mai stato possibile con i colleghi tedeschi per vari motivi. 
Primo: loro non parlano molto. Ci mettono mesi per aprirsi. Ci sono alcuni che addirittura non lo fanno mai. Ho avuto una dirigente che, nonostante sedessi sempre a un metro di distanza da lei, preferiva mandarmi delle email per comunicarmi cosa fare, invece che dirmelo personalmente. 
Secondo: un rapporto di amicizia sul lavoro per loro è impensabile. Il lavoro è lavoro e tutto ciò che ne appartiene deve rimanere al di fuori della sfera privata. Inoltre, in ufficio è facile che si creino competizioni e invidie. Preferiscono, quindi, evitare di caricare la loro giornata lavorativa con l’elemento personale per rendere le cose più facili. 
Terzo: quando hai la fortuna di incontrare delle eccezioni (non tutte le ciambelle vengono col buco!), il passaggio successivo al semplice rapporto sul posto di lavoro avviene in tempi lunghissimi. Questo perché con loro hai sempre bisogno di un appuntamento. I tedeschi sono gli inventori degli appuntamenti. Loro amano compilare tabelle, schemi, grafici dove tutto è preciso e organizzato, senza lasciare spazio alle sviste.
L’appuntamento in questione, però, non è del tipo “Che hai da fare nei prossimi giorni?”, ma più della serie “Ho uno spazio libero in quel determinato giorno tra un paio di mesi!”, perché prima viene la famiglia, la macchina, il cane, il gatto, la vacanza, Netflix, la casa e poi tutto il resto.

Lavorare a quel progetto rispondendo a un volume impressionante di chiamate al giorno fu davvero stressante. Tutto era pessimo: il luogo e le condizioni di lavoro, la paga, le lamentele della gente al telefono. L’unica cosa che mi permetteva di sopportare le mie giornate erano i miei colleghi italiani. Il legame divenne sempre più forte anche perché avevamo in comune un’unica grande esperienza: l’espatrio. 
Ho sentito qualcuno definirci dei “vigliacchi”. Bè, per me i miei colleghi erano tutto tranne che dei vigliacchi. Erano brillanti, intelligenti, ognuno con un’ottima formazione alle spalle. Erano tristi perché seguendo un puro istinto di sopravvivenza erano stati costretti a lasciare un Paese dove splendeva quasi sempre il sole e si mangiava da Dio per andare a lavorare in un call center in un Paese di cui non conoscevano la lingua e dove l'assenza di vitamina D diventava cronica. A loro mancava terribilmente la parmigiana di melanzane della mamma, la mozzarella fresca della latteria e la brezza del mare. Allo stesso tempo, dovevano pensare al loro futuro e questo, purtroppo, non poteva essere in Italia.

Dopo un anno, ci mandarono tutti a casa. 
Voi penserete: caspita, che grande novità per te! 
Il volume delle chiamate cominciò a scendere fino a diventare nullo. Noi non servivamo più. Fui comunque contenta di lasciare quel posto. Non avrei più rivisto i miei colleghi, ma il mio corpo e la mia mente avevano un terribile bisogno di relax.
Mi presi una breve pausa e qualche spicciolo dalla disoccupazione. Recuperai, però, le energie in fretta e decisi di ritornare a lavorare in un altro call center.  
Qui la situazione non migliorò per niente.
Entrai a far parte di un progetto dove a ogni chiamata entrante in tedesco e in italiano dovevo cercare di vendere i loro prodotti. Il punto critico (che portò poi il progetto a fallire) fu che gran parte delle chiamate che ci arrivavano era destinata al reparto tecnico, che era incaricato di riparare e risolvere problemi. Chiamava, quindi, molta gente incazzata e già insoddisfatta dell’azienda che non avrebbe preso ancora un altro prodotto neanche se glielo avessimo regalato. 
Potete immaginare quanto fosse enorme la pressione alla vendita e quanto ogni giorno fosse frustrante giocare a fare la venditrice di un’azienda di cui non me ne importava un accidenti.
Anche questo progetto si rivelò una bolla di sapone, ma il call center non volle assolutamente rinunciare a me. Mi spostarono nel reparto tecnico per televisori di una marca molto famosa. L’ambiente tecnico è per antonomasia pieno di uomini e questo non fu da meno. Dovetti fronteggiare qualche sguardo di troppo, alcune email improbabili e aperte dichiarazioni di interesse. Giravo tutto il giorno con la mia mano sinistra alzata mettendo in bella mostra la mia fede nuziale e rischiando così di beccarmi l’artrosi.
Non trovai questa situazione spiacevole. Anzi, stranamente mi sentivo coccolata e protetta da tutti questi uomini. E soprattutto apprezzavano tanto il mio lavoro, dato che lo dovevo svolgere interamente in tedesco. Io, però, iniziai a cambiare. Diventai insofferente a quel genere di impiego. Mi ero stufata.
Quando, con un enorme sorriso stampato sulle loro facce, si presentarono con il mio contratto rinnovato per un altro anno (al quale, per legge, avrebbe dovuto seguire l’indeterminato), io non mostrai l’entusiasmo che loro si aspettavano. 
Lo rifiutai. 
Capii che non volevo passare il resto della mia vita a rispondere al telefono. In questo, non trovavo nessuna realizzazione personale. Decisi di dedicare il tempo della disoccupazione a me stessa. 
Fu allora che iniziai a scrivere. C’era una storia che ronzava nella mia testa da così tanto tempo che avrebbe rischiato di esplodere se non l’avessi messa per iscritto. Fu incredibile perché una volta che la misi nero su bianco, non ci pensai più. 
Con mia grande sorpresa, scoprii che amavo scrivere. Ciò mi restituiva tutta quella libertà che mi era stata tolta durante quegli anni di call center. Nessuno mi poteva dire quando andare al bagno e per quanto tempo. Nessuno poteva vietarmi di mangiare seduta alla mia scrivania. Nessuno mi istruiva a dire sempre le stesse cose e nello stesso maledetto modo. Se ero malata, non ero costretta ad andare subito dal medico, ritirare il certificato e mandarlo subito per posta altrimenti avrei rischiato qualche penalizzazione. Nessuno più controllava e correggeva quello che dicevo e quello che facevo.
Con la scrittura recuperai la mia dignità e il potere di agire in piena libertà. Potevo finalmente dare sfogo alla mia fantasia, che era stata per molti anni intrappolata nella mia testa. 
Da allora sono passati più di quattro anni. Il mio primo romanzo è da poco in vendita e io stento ancora a crederci.
Perché così tanto tempo?
Nel frattempo, sono diventata mamma. Mia figlia è stata talmente voluta e cercata (anche questo percorso non è stato per niente facile, ma questa è un’altra storia) che mi è venuto spontaneo dedicarle tutto il mio tempo a disposizione per accompagnarla nella crescita. Appena lei ha acquisito un’indipendenza tale da poter frequentare senza problemi un asilo, io sono riuscita a portare a termine il mio progetto di cui sono maledettamente fiera.
“Seguendo la mia stella” è il mio romanzo d’esordio e di rinascita.

martedì 19 novembre 2019

Volevo fare l’event manager…





Quando decisi che Berlino sarebbe diventata la mia fissa dimora, avevo una laurea in lingue straniere nella tasca, ma le mie esperienze lavorative erano pari a zero. Inoltre, il mio tedesco era buono, ma il livello da madrelingua era un lontano traguardo che potevo ammirare solo con un potente cannocchiale. Ciononostante, volevo assolutamente lavorare con i tedeschi, confondermi tra di loro e sentirmi parte integrante di un nucleo compatto e affiatato. E soprattutto, mi ero messa in testa che dovevo organizzare eventi. Mi sembrava una professione dinamica e piena di sfaccettature, anche se a volte stressante. Non so perché, ma all’epoca decisi che doveva essere quello il lavoro dei miei sogni.
Sognavo di entrare ogni giorno nel mio ufficio con il sorriso stampato sulla faccia, augurando il buongiorno a un team che organizzava fiere o conferenze in giro per il mondo. 
Purtroppo la realtà fu molto diversa. Dovetti accontentarmi di partire da un tirocinio, con la speranza di essere poi assunta in maniera definitiva. 
Questo, però, non accadde mai. 
Accumulai un tirocinio dietro l’altro fino a quando non conquistai la fascia di Miss Tirocinante Perfetta per diversi anni consecutivi. A quanto pare, ogni volta c’era un motivo valido alla mancata assunzione che non fosse da ricondurre alle mie scarse qualità. 
Io non credo di essere stata un’inetta. Sono convinta, invece, di non aver avuto soltanto Saturno contro, ma che anche a tutta la Via Lattea non debba essere stata un granché simpatica.
Ricordo ogni esperienza lavorativa come se fosse ieri. Ognuna mi ha lasciato qualcosa, positivo o negativo che sia.
Ecco a voi una carrellata. 
Poi sarete voi a dirmi se non ho ragione!

Il molestatore
Il mio primo colloquio di lavoro lo svolsi in un enorme ufficio dove lavoravano in tutto quattro persone, che si occupavano di organizzare fiere in giro per la Germania. A interrogarmi è il capo di questa minuscola azienda, un signore di mezz’età molto in sovrappeso e con la battuta pronta. 
Non stava cercando personale. Io avevo mandato il mio curriculum di mia iniziativa e lui lo aveva trovato talmente interessante, da chiamarmi per un colloquio. 
Aveva in mente di inserirmi nel mercato italiano, ma era disposto ad assumermi solo se io avessi superato un mese di prova (senza una benché minima retribuzione). Io, poiché ero molto desiderosa di iniziare a lavorare, accettai ingenuamente la sua proposta. Per una settimana fui impegnata a non fare altro che traduzioni. Traducevo il loro sito internet dal tedesco all’italiano, mentre nel frattempo lui mi spiegava in che cosa consisteva la loro attività.
Imparai subito a conoscerlo. Era arrogante, burbero, dominante e frustrato perché avrebbe voluto avere più successo nel suo campo. Le sue collaboratrici odiavano lavorare in quel posto e alla fine di quella settimana lavorativa, capii anche il perché. 
Era un gran porco.
Uno di quelli che non lo danno subito a vedere. Uno di quelli che sfruttano la propria posizione di predominanza per schiacciarti e trattarti come una bambolina con cui giocare a proprio piacimento. 
Iniziò a entrare sul personale. Gli interessava la mia vita privata e quello che io facevo con il mio fidanzato. Io cercavo di rispondere gentilmente senza dare troppe informazioni. Una domanda in particolare mi colpì a tal punto da far suonare nella mia testa un enorme campanello d’allarme. Mi chiese se io in genere viziavo il mio ragazzo. 
Che diavolo voleva intendere il suo cervello malato?
Decisi comunque che non lo volevo sapere.
Noi donne non abbiamo per niente la vita facile. Prima o poi, ci capiterà di incontrare un idiota del genere, che si arrogherà il diritto di superare il limite solo perché siamo dotate di un paio di tette. L’importante è, però, saper reagire nella maniera giusta.
Io capii subito che quello non era il modo corretto in cui un datore di lavoro si doveva rivolgere a una sua dipendente e che anche se avessi ottenuto il posto, avrei dovuto sopportare ogni giorno la sua prepotenza come facevano le altre.
Il lunedì successivo non mi presentai al lavoro.
Quell’episodio spiacevole era da buttare nel dimenticatoio. 
Tolsi la mia foto dal curriculum, perché quello era il vero motivo per cui mi aveva chiamata.

Il mediatore poco mediante
Poco dopo entrai a far parte di un istituto dove si potevano imparare tutte le tecniche per diventare un buon mediatore, ovvero una figura professionale incaricata di risolvere i conflitti tra le due parti, per evitare di finire davanti a un giudice. 
Io, sempre da tirocinante, mi occupavo di tutta la parte amministrativa, interessandomi poco alla materia in questione. Ma non fu solo questo il motivo per cui poi non venni assunta. Il mio capo, sebbene facesse di professione il rappacificatore, possedeva invece sul piano personale un carattere tutt’altro che pacifico. Mostrava delle evidenti preferenze tra i suoi collaboratori, tra le quali ovviamente io non ero compresa. In particolare, aveva preso di mira una sua dipendente, della quale non mancava mai di sottolineare le mancanze e gli errori. In tutta onestà, non riuscivo a capire tutto questo suo accanimento. Io vedevo solo una donna fragile che era costretta a corrergli dietro in continuazione come si fa con un bambino capriccioso. 
Quando io e lei affrontavamo l’argomento, lei ribadiva sempre il fatto che lui avesse un debole per le bionde e che noi due non lo eravamo.
All’epoca, come ora, dubitavo che si potesse essere così superficiali da determinare il proprio grado di simpatia in base al colore dei capelli. Iniziai, però, a chiedermi se questo suo atteggiamento valesse anche per le altre professioni.
Ad esempio: i pasticcieri, in realtà, odiano gli zuccheri? I commercialisti vengono o no sopraffatti dalla nausea quando pensano di doversi occupare della propria dichiarazione dei redditi? 
Avete presente il film Laws of Attraction, con Pierce Brosnan e Julianne Moore, una delle mie commedie romantiche preferite? Ebbene, lui è un avvocato divorzista di successo che, però, non crede nel divorzio, tanto da voler continuare il matrimonio con la protagonista, che invece non ne vuole proprio sapere. Per lui, infatti, si tratta solo di lavoro e non di una filosofia di vita. 
Credo che questo discorso valga per alcune professioni, ma non per tutte. Se voi avete qualche esempio da propormi, sono tutta orecchi!

Il cinema. Che dolore!
Poi fu la volta di un’azienda che affittava alle produzioni cinematografiche telecamere, stativi, luci e altri apparecchi necessari per poter girare un film. 
Io dovevo stare alla reception, rispondere al telefono e controllare la merce in entrata e in uscita. Controllare per me significava pesare le telecamere che erano contenute in enormi valigie. Ero, quindi, costretta a sorreggere svariati chili su una bilancia più volte al giorno. 
Ben presto, mi risvegliai nel cuore della notte con il corpo completamente paralizzato perché quest’attività aveva intaccato i nervi della mia schiena. 
Da allora, il mal di schiena è diventato il mio migliore amico, che sono riuscita a tenere a bada solo con lo yoga, la migliore invenzione importata dall’India, insieme a quella del Kamasutra.
Non fu questo il motivo per cui mi licenziai. Mi dissero che le persone che parlavano con me al telefono, non riuscivano a capire il mio tedesco. Io ero convinta, invece, che quelle persone non erano abituate a sentire al telefono una voce dall’accento marcato e che quindi non VOLEVANO capire. Notai subito che avevano iniziato i colloqui per sostituirmi senza dirmelo. Decisi, così, di togliere il disturbo.
Non resto di certo in un posto dove non sono ben voluta!

Della serie: mai una gioia!
Finalmente approdai in un bel team che lavorava a un progetto davvero interessante. In tre lavoravamo in un ufficio dell’università e organizzavamo un convegno per cineasti, produttori e registi che si teneva una volta l’anno. Mi occupai di diverse mansioni. Redassi da sola la brochure dell’evento e la presentazione in PowerPoint per i partecipanti. Mi sentivo soddisfatta e apprezzata per il mio lavoro. Purtroppo il progetto, che era interamente finanziato dall’Unione Europea, non si sarebbe più svolto l’anno successivo e quindi anche in quel caso, dovetti levare le tende.

Una soddisfazione prima del baratro
Il mio ultimo tirocinio (finalmente!) si svolse nell’azienda dei miei sogni. Lavorare per loro avrebbe fatto bene non solo al mio ego, ma anche al mondo intero. Quest’azienda, infatti, si occupava di energia solare, nella forma di un magazine, di svariate conferenze e consulenza ingegneristica. Io assistevo l’organizzatrice delle fiere a cui l’azienda partecipava. Svolgevo il lavoro che avevo sempre voluto fare. Ero davvero al settimo cielo.
Il settore dell’energia solare, però, non era molto stabile. Molto dipendeva dai finanziamenti governativi e sebbene la mia azienda fosse in attivo, doveva stare molto attenta con le finanze. Alla fine dei miei sei mesi, non ottenni un altro contratto. La mia responsabile mi disse che l’idea di assumermi lì non era stata sua e che lei non aveva bisogno di me.
Fu un vero peccato!

Bene! Se adesso state pensando che io abbia vissuto abbastanza disgrazie da meritarmi un bel viaggio a Lourdes, dovete capire, invece, che quanto raccontato finora è solo l’inizio.
Il peggio deve ancora arrivare!

mercoledì 6 novembre 2019

...e ancora matrimoni!




La cerimonia indiana

Era la prima volta che prendevo un volo intercontinentale. Stare tutte quelle ore senza toccare il suolo terrestre contribuì a caricare il mio corpo dell’adrenalina necessaria per affrontare tutto il viaggio. 
L’arrivo in India è stato travolgente come un uragano al massimo della sua potenza. Qui non c’era niente, ma proprio niente, che assomigliasse alla realtà che avevo conosciuto fino ad allora. Esaurita la sorpresa iniziale, ho dovuto tirar fuori un enorme spirito di adattamento e non è stato sempre facile, dato che per me il massimo dell’avventura era rappresentato dal mangiarmi uno yoghurt scaduto da un giorno. 
Ho dovuto imparare a lavarmi con un secchio e una brocca di plastica, a convivere con una perenne aria condizionata, a rispettare le etichette e gli impegni sociali, a dimenticarmi della privacy e della solitudine e a fare i conti con i tanto famosi problemi intestinali.
Il nostro matrimonio, sebbene celebrato in un solo giorno invece che tre e presenziato da un centinaio di persone invece che un migliaio, è scivolato via senza che io me ne rendessi conto. Ero come un burattino, che tutti decidevano come manovrare ed io, per amore, ho lasciato che fosse così. Ho messo in un angolo, per un momento, il mio cervello pensante e sono stata spettatrice come tutti gli altri delle mie stesse nozze.
Fu un’esperienza stancante, ma ne valse la pena. Alla fine, ero stata accettata da questa piccola comunità, i cui membri portavano quasi tutti lo stesso cognome e guardavano lo straniero sempre con un certo scetticismo. 
Da allora, anch’io potei chiamarmi Patel come loro e di questo ne vado particolarmente fiera.

Il matrimonio italiano

Se per quanto riguarda la cerimonia in chiesa avevo pensato di aver più voce in capitolo, mi sbagliavo di grosso. Anche in questo caso, bisognava mettere d’accordo un po’ tutti, attenersi al bugdet e incrociare le dita che andasse tutto secondo i piani. Gli ostacoli incontrati durante i preparativi non furono pochi, ma riuscimmo a cavarcela sempre in qualche modo. 
Ricordo come fu particolarmente difficile la ricerca del prete. Al nostro matrimonio, avrebbero partecipato i genitori di lui, che sarebbero venuti per la prima volta in Europa in occasione di questo evento, altri parenti dagli Stati Uniti e un paio di amici da Berlino. Capite come un prete che parlasse inglese fosse necessario come l’aria.
Venimmo a scoprire della presenza di un giovane prete indiano in una parrocchia dalle mie parti e per noi fu come vincere la lotteria. La nostra euforia fu, però, subito spenta appena facemmo la conoscenza di questo individuo. Quando gli chiedemmo di celebrare le nostre nozze, la sua faccia diventò così seria e dura che per un attimo pensai che avesse capito male e che credesse di dover celebrare un funerale.
Quando, poi, lo informammo della nostra necessità di un prete che parlasse in inglese, allora fu proprio un “no” definitivo. A quanto pare, non sapeva una parola di inglese e quindi, per noi era fuori discussione. 
Fu un vero peccato! Soprattutto, perché sapendo che lui proveniva dal sud dell’India, dove l’hindi non è incluso tra le lingue parlate, un po’ d’inglese avrebbe dovuto masticarlo. Ne avemmo, poi, la conferma quando scoprimmo che, in quel paesino pugliese, lui s’impegnava addirittura a insegnare l’inglese ai bambini.
Alla faccia del compatriottismo!
Non capimmo mai perché lui non volle avere nulla a che fare con noi, ma poi alla fine che importava? 
Riuscimmo a trovare un altro prete, questa volta italiano, il cui inglese non era per niente male. Durante la cerimonia, fu in grado di passare da una lingua all’altra come se fosse qualcosa che faceva tutti i giorni.
La cerimonia fu davvero particolare. Un coro che intonò l’Ave Maria come se si trovasse a La Scala e i voti pronunciati in italiano dallo sposo furono responsabili di qualche lacrima tra gli invitati.
I festeggiamenti furono una vera bomba. 
Facemmo il nostro ingresso nel locale direttamente dal mare, su una zattera bianca guidata da uno pseudo gondoliere con un sottofondo musicale a cura di un sassofonista.
Tra ogni tipo di pietanza a base di pesce, balli scatenati che facevano concorrenza ai migliori film di Bollywood e fiumi di whisky che riempivano i bicchieri al posto dell’acqua, la festa si trasformò in una unione allegra e armoniosa di diverse culture, che sembravano conoscersi da una vita.
Per anni sentii ancora parlare di quel giorno.

martedì 29 ottobre 2019

I matrimoni




Se lei è cattolica e lui induista, se entrambi costituiscono una coppia aperta, tollerante e rispettosa dell’essenza altrui, allora un matrimonio non basta. Ne serve uno cattolico, uno induista e un altro civile, dato che le cerimonie sono importanti, ma i pezzi di carta contano ancora di più.
I matrimoni sono stati tre. Ognuno di questi mi ha lasciato un ricordo piacevole e una serie di aneddoti divertenti che avrei voglia di raccontarvi.
Prima di tutto, molti di voi vi starete chiedendo il motivo. Perché sposarsi al giorno d’oggi? E perché per ben tre volte con lo stesso uomo?
In realtà, ci si sposa per vari motivi. Per far contente le famiglie. Per celebrare la propria unione davanti alle comunità in cui si è cresciuti. Perché quando ci si ama tanto, si è disposti a fare qualsiasi pazzia. Per assumersi un impegno. Anche se fittizio, è pur sempre un impegno. So bene che la gente ai nostri tempi corre dall’avvocato divorzista come se stesse facendo un salto dal parrucchiere. Eppure, mi piace pensare che dopo aver preso una decisione del genere, entrambi si impegnino a far durare questa unione per sempre. Non sarà un concetto del tutto fedele alla realtà, ma sicuramente nasconde una visione molto romantica della vita. Questo, non so perché, fa parte di me. 
Non fatemene una colpa!

La cerimonia civile
Lo sapevate che Copenaghen è la Las Vegas d’Europa? E non per la presenza di innumerevoli casinò, ma per i matrimoni lampo. Qui è possibile sposarsi in tempi brevissimi, senza lunghe trafile burocratiche e a costi ridotti. Questo ha contribuito a incrementare un certo business attorno all’evento del matrimonio, che sta facendo di certo un gran bene alla capitale danese. Se siete anche voi una coppia composta da due diverse nazionalità e volete sposarvi senza grandi complicazioni e in breve tempo, Copenaghen è quello che fa per voi.
Avendo altri due matrimoni da organizzare in due Paesi diversi, Italia e India, dove il rito civile purtroppo sarebbe stato possibile solo scalciando e sgomitando, noi decidemmo che questa cerimonia, sebbene fosse la più importante dal punto di vista giuridico, doveva svolgersi il più velocemente possibile e a costi limitati.
Con un volo Easyjet, che da Berlino ti portava entro un’ora a destinazione e costava molto di meno di certi treni nazionali, arrivammo al municipio della capitale danese con un paio di documenti tra le mani e tanta voglia di diventare sulla carta marito e moglie. Allo sportello informativo, però, incontrammo un primo ostacolo che col senno di poi ci fece morire dalle risate. 
Quello che sarebbe diventato mio marito è nato e cresciuto in India, ma all’epoca gli era stato conferito il passaporto tedesco solo perché era riuscito a concludere gli studi in Germania e a ottenere un contratto a tempo indeterminato (da notare come l’Italia rispetto a questo sia lontana anni luce!). Io, dal canto mio, ero in possesso come tuttora di una carta d’identità italiana valida e riconosciuta a livello comunitario. 
Ebbene, l’impiegata danese non batte ciglio di fronte al passaporto tedesco di un tizio dai connotati non propriamente teutonici, mentre storce il naso davanti al mio documento, non ritenendolo sufficiente. La gentile signora pretendeva che le consegnassi il mio permesso di soggiorno.
Ora, capisco che l’Italia stia pian piano perdendo il suo peso a livello internazionale, ma trattarci addirittura da extracomunitari mi pare un po’ troppo. All’epoca, non capivo per quale motivo quell’impiegata fosse stata assunta, ma non di certo per la sua competenza.
Senza di lei, avremmo speso meno tempo a ottenere il nostro appuntamento per il rito civile. Fummo sbattuti da un altro impiegato, il quale dovette riconoscere che io da cittadina italiana potevo ovviamente trasferire il mio bel culetto in un qualsiasi Paese dell’Unione Europea, senza dover sprecare la carta per stampare il permesso di soggiorno.
Ritornammo dopo appena due settimane nello stesso municipio. Ci sposammo alla presenza di un incaricato che parlava un discreto tedesco e un altro tizio che evidentemente di mestiere faceva il testimone di nozze. Uscimmo dall’edificio dopo neanche dieci minuti con un certificato che dichiarava in quattro lingue diverse il nostro avvenuto matrimonio e, a dispetto dell’impiegata inesperta, dichiarammo compiuta la nostra missione.

Continua…

martedì 22 ottobre 2019

Gli incontri che ti cambiano la vita



Undici anni fa mi viene data l’opportunità di partecipare al progetto Erasmus in Germania. Quando al primo anno di liceo, mi approcciai al tedesco, fu subito amore a prima vista. Il suo lessico spropositato metteva ogni volta a dura prova la mia memoria. La sua grammatica così precisa e intensa era già un indizio della struttura mentale tedesca, che mi affascinava come tutta la storia di questo popolo. La sua complessità rappresentava alla fine per me una sfida. Ho sempre sognato che un giorno avrei toccato il suolo teutonico e sarei riuscita a comunicare in questa lingua ostica senza alcun problema.
Non vedevo l’ora di immergermi a capofitto nella cultura tedesca e di passare finalmente dalla carta dei libri di studio alla realtà vera. 
Scelsi Berlino semplicemente perché un caro amico mi consigliò di andarci. Non avevo alcuna idea di quello che mi aspettava. Sapevo solo che non vedevo l’ora di provare questa nuova esperienza. E quando alla fine approdai nella terra dei miei sogni, ero come una bambina al luna park. 
Ero completamente affascinata e trasportata da ciò che mi circondava. Non avevo internet sempre a portata di mano come oggi. Non avevo un televisore o uno smartphone. Facebook e Instagram non esistevano. Potevo chiamare a casa solo attraverso un internet point. Eppure ero la persona più felice del mondo. 
Mi bastava immergermi nella realtà circostante e assimilare tutti gli input che ne derivavano. Volevo provare tutto. Ed è quello che ho fatto durante il mio anno di permanenza a Berlino. L’ho attraversata in lungo e in largo, sono stata vittima delle attrazioni turistiche, ho assaggiato ogni tipo di cibo a me estraneo fino a quel momento, ho conosciuto una marea di ragazzi provenienti da ogni parte del mondo e mi sono arricchita di un bagaglio che ormai fa parte di me e che ognuno di noi dovrebbe avere. 
Per questo, mi sento di consigliare questa esperienza a chiunque. Se avete l’opportunità di fare un viaggio di studio o di lavoro all’estero, non lasciatevela scappare. Prenotate il volo al più presto, preparate la valigia e partite. Possibilmente DA SOLI! 
Non infilatevi in gruppi a voi già conosciuti, come se steste per andare a una gita scolastica. Non partite per seguire qualcuno, facendo poi lo sbaglio di vivere la vita che vuole questa persona e non la vostra. Dovreste, invece, affrontare questo viaggio in maniera individuale, perché solo così potrete mettervi a confronto con i vostri limiti e le vostre competenze. Solo così sarete costretti a scavare dentro di voi trovando quel coraggio che poi vi servirà per affrontare la vita. Solo così assaporerete il gusto della libertà e capirete cosa significa essere davvero indipendenti.
Una volta che avrete vissuto quest’esperienza nella maniera più totalizzante, tornerete a casa con una nuova consapevolezza. Saprete, innanzitutto, che la realtà è molto diversa al di là delle Alpi e del mar Mediterraneo. Sarete coscienti che la vita è fatta di porte che si aprono e di altre che si chiudono. Vi sentirete liberi di decidere per voi stessi sapendo di avere il mondo intero ai vostri piedi. 
Quando tornai nella mia stanza in affitto a Perugia con l’obiettivo di concludere l’università, ero un’altra persona. Non solo per aver vissuto un anno intero in una delle città più elettrizzanti che esistano su questo pianeta, ma perché proprio qui avevo incontrato l’amore della mia vita. 
Successe all’improvviso, senza nessun avvertimento e senza averlo cercato. Un frequentatore assiduo di Tinder non crederebbe mai alla mia storia. Eppure vi posso assicurare che all'epoca volevo tutto tranne che innamorarmi. La mia testa era talmente piena di parole tedesche, la mia vita era così densa di avvenimenti, io ero in realtà così felice che non avrei mai potuto trovare lo spazio e il tempo di struggermi per la mancanza di un uomo.
Quando lui, però, venne a bussare alla mia porta, non potei far finta di niente. Dovetti accettare l'evidenza. Lo accolsi nella mia vita e fu la migliore decisione che avessi mai preso.
Oggi sarei di certo una persona diversa, se non avessi incontrato lui. 
Tutto quello che ho conquistato finora è frutto di quell’incontro inaspettato.
Ci ero uscita un paio di volte, eppure avevo capito fin da subito di aver trovato la persona giusta. Quella con cui fare dei progetti. Quella di cui non puoi fare a meno.
Rimasi ancora un altro anno a Perugia, intraprendendo una relazione a distanza che, a dispetto di quello che si dice, ci fortificò e ci rese ancora più uniti. 
Ritornai nella città e dall’uomo che amavo con una laurea in mano e tanti sogni da realizzare.
Ma la vita non si svolge mai come uno se la immagina.
Sicuramente, molto di quello che accadde non avrei mai potuto immaginarmelo, neanche se mi fossi incarnata in J. K. Rowling.

giovedì 17 ottobre 2019

Nina S. Patel

Questo blog parla di me. Di come la mia vita è cambiata radicalmente da quando ho messo piede su un territorio straniero. Di come ho dovuto combattere per raggiungere i miei obiettivi. Di come sono arrivata a capire che volevo fare la scrittrice. 
Ogni settimana vi presenterò un nuovo capitolo di questo lungo percorso che mi ha condotto verso quella che sono oggi. Vorrei condividere la mia storia con chi, come me, ha cercato e sta cercando di realizzare i propri sogni. Le mie parole dovrebbero servire a incoraggiare chi sta sul punto di arrendersi e chi sta facendo spegnere lentamente il fuoco della propria passione perché ha dovuto affrontare troppi ostacoli.
La mia strada verso la scrittura aiuterà di certo tutti coloro che non trovano il coraggio e la forza di buttarsi in qualcosa di nuovo, perché pensano che sia troppo difficile o addirittura impossibile da realizzare.
Sento il bisogno di spiegare come è nata l’idea del mio romanzo. Chi l’ha già letto, avrà notato che nel libro non c’è nessuna dedica o una conclusione con i dovuti ringraziamenti. Questo è del tutto intenzionale. 
Primo: volevo lasciare spazio alla storia e parlare solo delle vicende dei miei personaggi senza “intromettermi”. Secondo: non ho nessuno cui ringraziare o a cui dedicare questo romanzo, se non a me stessa.
Quando ho iniziato a scrivere, non l’ho fatto perché avevo intenzione di diventare un’autrice famosa di bestseller, ma perché, all’insaputa di tutti, ho sentito la necessità di farlo. Ho dovuto fare un lungo lavoro su me stessa per capire che quella era la mia strada.
Dopo aver raggiunto questa consapevolezza, sono riuscita a portare a termine la mia creazione, ma nel frattempo sono passati 4 anni. 
Vi state chiedendo come mai?
Non vi preoccupate. Lo capirete presto.
Stay tuned!