martedì 3 dicembre 2019

…E invece finisco in un call center!






Dopo tutti questi tirocini, avevo accumulato tanta esperienza ma pochissimi soldi. Era arrivato il momento di trovarmi un lavoro che avesse una durata superiore ai sei mesi e che mi permettesse di guadagnare di più. Questo, in realtà, non fui io a deciderlo, ma il mio portafoglio che da tempo si sentiva talmente inutile da voler tentare il suicidio. 
Trovare un lavoro in un call center fu facilissimo. Un’azienda berlinese specializzata nello shopping online stava invadendo il mercato italiano bombardandolo di pubblicità. Aveva, quindi, terribilmente bisogno di personale italiano che potesse affrontare il carico di telefonate previsto.
Mi ritrovai per la prima volta a lavorare con italiani e fu un vero cambiamento per me. Instaurai subito dei rapporti che superavano il lavoro. Finii per coltivare la loro amicizia anche al di fuori degli orari lavorativi, magari a cena gustando dell’ottimo cibo italiano.
Questo non era mai stato possibile con i colleghi tedeschi per vari motivi. 
Primo: loro non parlano molto. Ci mettono mesi per aprirsi. Ci sono alcuni che addirittura non lo fanno mai. Ho avuto una dirigente che, nonostante sedessi sempre a un metro di distanza da lei, preferiva mandarmi delle email per comunicarmi cosa fare, invece che dirmelo personalmente. 
Secondo: un rapporto di amicizia sul lavoro per loro è impensabile. Il lavoro è lavoro e tutto ciò che ne appartiene deve rimanere al di fuori della sfera privata. Inoltre, in ufficio è facile che si creino competizioni e invidie. Preferiscono, quindi, evitare di caricare la loro giornata lavorativa con l’elemento personale per rendere le cose più facili. 
Terzo: quando hai la fortuna di incontrare delle eccezioni (non tutte le ciambelle vengono col buco!), il passaggio successivo al semplice rapporto sul posto di lavoro avviene in tempi lunghissimi. Questo perché con loro hai sempre bisogno di un appuntamento. I tedeschi sono gli inventori degli appuntamenti. Loro amano compilare tabelle, schemi, grafici dove tutto è preciso e organizzato, senza lasciare spazio alle sviste.
L’appuntamento in questione, però, non è del tipo “Che hai da fare nei prossimi giorni?”, ma più della serie “Ho uno spazio libero in quel determinato giorno tra un paio di mesi!”, perché prima viene la famiglia, la macchina, il cane, il gatto, la vacanza, Netflix, la casa e poi tutto il resto.

Lavorare a quel progetto rispondendo a un volume impressionante di chiamate al giorno fu davvero stressante. Tutto era pessimo: il luogo e le condizioni di lavoro, la paga, le lamentele della gente al telefono. L’unica cosa che mi permetteva di sopportare le mie giornate erano i miei colleghi italiani. Il legame divenne sempre più forte anche perché avevamo in comune un’unica grande esperienza: l’espatrio. 
Ho sentito qualcuno definirci dei “vigliacchi”. Bè, per me i miei colleghi erano tutto tranne che dei vigliacchi. Erano brillanti, intelligenti, ognuno con un’ottima formazione alle spalle. Erano tristi perché seguendo un puro istinto di sopravvivenza erano stati costretti a lasciare un Paese dove splendeva quasi sempre il sole e si mangiava da Dio per andare a lavorare in un call center in un Paese di cui non conoscevano la lingua e dove l'assenza di vitamina D diventava cronica. A loro mancava terribilmente la parmigiana di melanzane della mamma, la mozzarella fresca della latteria e la brezza del mare. Allo stesso tempo, dovevano pensare al loro futuro e questo, purtroppo, non poteva essere in Italia.

Dopo un anno, ci mandarono tutti a casa. 
Voi penserete: caspita, che grande novità per te! 
Il volume delle chiamate cominciò a scendere fino a diventare nullo. Noi non servivamo più. Fui comunque contenta di lasciare quel posto. Non avrei più rivisto i miei colleghi, ma il mio corpo e la mia mente avevano un terribile bisogno di relax.
Mi presi una breve pausa e qualche spicciolo dalla disoccupazione. Recuperai, però, le energie in fretta e decisi di ritornare a lavorare in un altro call center.  
Qui la situazione non migliorò per niente.
Entrai a far parte di un progetto dove a ogni chiamata entrante in tedesco e in italiano dovevo cercare di vendere i loro prodotti. Il punto critico (che portò poi il progetto a fallire) fu che gran parte delle chiamate che ci arrivavano era destinata al reparto tecnico, che era incaricato di riparare e risolvere problemi. Chiamava, quindi, molta gente incazzata e già insoddisfatta dell’azienda che non avrebbe preso ancora un altro prodotto neanche se glielo avessimo regalato. 
Potete immaginare quanto fosse enorme la pressione alla vendita e quanto ogni giorno fosse frustrante giocare a fare la venditrice di un’azienda di cui non me ne importava un accidenti.
Anche questo progetto si rivelò una bolla di sapone, ma il call center non volle assolutamente rinunciare a me. Mi spostarono nel reparto tecnico per televisori di una marca molto famosa. L’ambiente tecnico è per antonomasia pieno di uomini e questo non fu da meno. Dovetti fronteggiare qualche sguardo di troppo, alcune email improbabili e aperte dichiarazioni di interesse. Giravo tutto il giorno con la mia mano sinistra alzata mettendo in bella mostra la mia fede nuziale e rischiando così di beccarmi l’artrosi.
Non trovai questa situazione spiacevole. Anzi, stranamente mi sentivo coccolata e protetta da tutti questi uomini. E soprattutto apprezzavano tanto il mio lavoro, dato che lo dovevo svolgere interamente in tedesco. Io, però, iniziai a cambiare. Diventai insofferente a quel genere di impiego. Mi ero stufata.
Quando, con un enorme sorriso stampato sulle loro facce, si presentarono con il mio contratto rinnovato per un altro anno (al quale, per legge, avrebbe dovuto seguire l’indeterminato), io non mostrai l’entusiasmo che loro si aspettavano. 
Lo rifiutai. 
Capii che non volevo passare il resto della mia vita a rispondere al telefono. In questo, non trovavo nessuna realizzazione personale. Decisi di dedicare il tempo della disoccupazione a me stessa. 
Fu allora che iniziai a scrivere. C’era una storia che ronzava nella mia testa da così tanto tempo che avrebbe rischiato di esplodere se non l’avessi messa per iscritto. Fu incredibile perché una volta che la misi nero su bianco, non ci pensai più. 
Con mia grande sorpresa, scoprii che amavo scrivere. Ciò mi restituiva tutta quella libertà che mi era stata tolta durante quegli anni di call center. Nessuno mi poteva dire quando andare al bagno e per quanto tempo. Nessuno poteva vietarmi di mangiare seduta alla mia scrivania. Nessuno mi istruiva a dire sempre le stesse cose e nello stesso maledetto modo. Se ero malata, non ero costretta ad andare subito dal medico, ritirare il certificato e mandarlo subito per posta altrimenti avrei rischiato qualche penalizzazione. Nessuno più controllava e correggeva quello che dicevo e quello che facevo.
Con la scrittura recuperai la mia dignità e il potere di agire in piena libertà. Potevo finalmente dare sfogo alla mia fantasia, che era stata per molti anni intrappolata nella mia testa. 
Da allora sono passati più di quattro anni. Il mio primo romanzo è da poco in vendita e io stento ancora a crederci.
Perché così tanto tempo?
Nel frattempo, sono diventata mamma. Mia figlia è stata talmente voluta e cercata (anche questo percorso non è stato per niente facile, ma questa è un’altra storia) che mi è venuto spontaneo dedicarle tutto il mio tempo a disposizione per accompagnarla nella crescita. Appena lei ha acquisito un’indipendenza tale da poter frequentare senza problemi un asilo, io sono riuscita a portare a termine il mio progetto di cui sono maledettamente fiera.
“Seguendo la mia stella” è il mio romanzo d’esordio e di rinascita.

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